PRINCIPI
DI BASE FOTOGRAFICA APPLICATI AL CINEMA
di
M. Di Cintio e F. Mosca
Cosa
vuol dire "filmare" ossia, in ultima analisi, "fare
una foto"?
Per rispondere con un discreto compromesso fra esaustività
e "agilità" abbiamo approntato questo mini-trattato
che copre, nell'ordine, i seguenti argomenti:
1.
Introduzione
2. Ma da dove viene il numero che designa un certo diaframma?
3. La sensibilità della pellicola: valori e scale
4. Latitudine di posa e trattamenti di sviluppo particolari
5. In che modo la scelta della coppia T/D al posto di un'altra
può essere importante?
6. Il colore e la temperatura cromatica
7. La questione del filtro di conversione incorporato
8. Il vano caricatore
9. Mirino e sistema di traguardazione (attenzione agli esposimetri
esterni!)
10. Alcune informazioni sui filtri
11. Un po' di sigle e definizioni (nel Super 8 e non solo)
1. Introduzione
Molti anni fa lessi da qualche parte che fare una foto è
un po' come riempire di acqua una bottiglia, stando al buio,
senza farla tracimare e senza che resti piena in modo parziale.
Per farlo, occorre, in mancanza di un controllo visivo in
tempo reale, una certa esperienza, ma sostanzialmente sta
a noi decidere se tenere aperto il rubinetto dell'acqua per
un certo tempo e con una certa portata, oppure se tenerlo
aperto per un tempo più breve ma con una portata maggiore.
Applicati alla fotografia, la portata dell'acqua, ossia quanto
apriamo il rubinetto, corrisponde al valore di diaframma impostato
sull'obiettivo; mentre il tempo di apertura del rubinetto
corrisponde al tempo di otturazione, ossia per quanto tempo
la pellicola resta esposta a quella determinata quantità
di luce che attraversa il diaframma. Tutto ciò allo
scopo di "riempire" l'emulsione fotosensibile, vale
a dire fare apparire l'immagine con le stesse proporzioni
di contrasto e luminosità che percepiamo con i nostri
occhi.
L'immagine che viene impressa sulla pellicola, o meglio sull'emulsione
fotosensibile stesa su un supporto che risulterà trasparente
alla luce una volta sviluppata la foto, non è in realtà
la stessa che percepiamo noi con gli occhi, ma una sua immagine
dove le zone chiare sono sostituite dalle zone scure e viceversa.
Per ora, e per semplicità, ci focalizzeremo sulle pellicole
in bianco e nero, dove il negativo del bianco è il
nero e viceversa, procedendo così per tutte le tonalità
di grigio.
"Riempire" l'emulsione fotosensibile (impressionare
la pellicola), quindi, non sarà altro che provocare
il maggior annerimento possibile in corrispondenza delle parti
più chiare dell'inquadratura, senza, però, che
le parti meno chiare si anneriscano troppo; questo perché
ogni emulsione ha una certa "inerzia" a farsi marchiare
dalla luce che la raggiunge: più bassa è questa
inerzia, maggiore sarà la sua sensibilità, ossia
la "rapidità" con cui, a parità di
luce, quella certa emulsione comincerà a scurirsi rispetto
a un'altra meno sensibile.
Una volta definita la sensibilità della pellicola,
della cui "misura" tratteremo più avanti,
avremo che ad ogni immagine corrisponderà "un
valore di esposizione" (EV) ben definito.
Per fare in modo che questo EV sia rispettato quando scattiamo
la foto, giocheremo sia sul diaframma (misurato in F) sia
sul tempo di esposizione (misurato - generalmente - in frazioni
di secondo).
Consideriamo l'immagine sottostante, sulla quale abbiamo indicato
con una X il valore di esposizione di una immagine per una
determinata pellicola.
Le tre frecce con colori diversi indicano tre possibili modi
di impressionare la pellicola, giocando sulla combinazione
di tempi e diaframmi secondo una scala che, ad ogni cambio
di valore (per esempio) dei primi, raddoppia o dimezza la
quantità di luce che arriva alla pellicola rendendo
necessario, ripettivamente il dimezzare o il raddoppiare dei
tempi di esposizione. In questo modo si hanno coppie tempo/diaframmi
equivalenti.
Traducendo in numeri, se l'esposimetro di bordo imposta una
coppia T/D di 1/125 di secondo a F 5.6, è possibile
ottenere il medesimo EV (valore di esposizione) anche dimezzando
il tempo ma raddoppiando l'apertura di diaframma; pertanto
con quella medesima pellicola e quella identica situazione
di luce di cui sopra, per la macchina fotografica e per l'emulsione
fotosensibile al suo interno, non fa alcuna differenza se
si usa una coppia tempo/diaframma di 1/250 a F 4, al posto
di quella sopra. E, sempre in termini di quantità di
luce, lo stesso si può dire usando un'altra coppia
T/D, quale, per esempio, 1/500 a F2.8; o anche 1/60 a F8.
L'elenco potrebbe continuare, ma fondamentalmente sono tutti
valori esposimetrici equivalenti: se avessimo davanti a noi
la bottiglia della metafora di apertura, si noterebbe che
verrebbe riempita sempre allo stesso livello, senza tracimare.
Per facilitare le cose, nelle vecchie reflex automatiche,
generalmente dette "a priorità di diaframma",
spettava al fotografo scegliere l'apertura del diaframma e
lasciare che la macchina impostasse automaticamente il tempo
di otturazione, tenendo conto, come sempre, innanzitutto della
scelta del fotografo, ma anche della luce riflessa dal soggetto
inquadrato che arrivava all'esposimetro e, ovviamente, della
sensibilità della pellicola utilizzata.
2. Ma da dove viene il numero che designa un certo diaframma?
Abbiamo appena detto, "calandolo dall'alto", che
un diaframma di F 8 lascia passare il doppio della luce del
diaframma F 11, ossia del valore che si trova immediatamente
dopo su ogni scala standard; mentre lascia passare la metà
della luce del valore F 5.6, quello immediatamente prima,
sempre su una scala standard. Anche senza essere geni in matematica,
sembrerebbe che qualcosa non torni. In realtà tutto
torna, poiché questi valori rappresentano l'apertura
"relativa" del diaframma, ed esprimono il rapporto
fra la lunghezza focale dell'obiettivo e il diametro del foro
del diaframma. Trattandosi di un quoziente, si spiega anche
per quale motivo questi valori 'sembrano' inversamente proporzionali
alla quantità di luce che lasciano passare; in realtà
è perfettamente logico: se la lunghezza focale è,
poniamo 50 mm, passerà più luce se il foro del
diaframma sarà aperto al massimo, creando - poniamo
- un'apertura circolare di 25 mm. Infatti 50 diviso 25 uguale
F 2. Mentre se il diaframma è più chiuso, creerà
un foro più piccolo, per esempio di 9 mm e in questo
caso il valore F sarà pari a circa 5,6 e passerà
circa un ottavo della luce rispetto a F 2. Si tratta, beninteso,
solo di qualche semplice esempio: nella realtà, questi
valori sono arrotondati per rispettare alcuni standard; qui
premeva semplicemente illustrare il principio su cui si basa
il tutto.
Da un punto di vista meccanico, il diaframma è costituito
da un certo numero di lamelle disposte in modo tale da formare
una figura geometrica che, per approssimazione, si avvicina
a quella di una circonferenza; maggiore il numero di lamelle,
migliore l'approssimazione e - di conseguenza - la resa ottica
dell'obiettivo, con minori cadute di luce ai bordi. Purtroppo
nel S/8 la stragrande maggioranza dei modelli presenta diaframmi
formati da due sole lamelle sagomate in modo tale da ricordare
una sorta di "V" orizzontale e sovrapposte l'una
all'altra: il loro scorrimento reciproco crea la variazione
del foro di passaggio della luce, foro che, però, è
ben lungi dall'avere una forma circolare. Macchine più
raffinate presentano diaframmi a 4 lamelle (per esempio quasi
tutte le Nizo), mentre al top troviamo cineprese (non necessariamente
con ottica intercambiabile) con diaframmi di ben 5-6 lamelle,
cosa che migliora anche la resa alle diverse focali, rendendola
più uniforme, specie per quanto concerne l'abbassamento
delle aberrazioni cromatiche.
3.
La sensibilità della pellicola: valori e scale
Esistono due diverse scale utlizzate per designare le varie
sensibilità: sia gli Stati Uniti, sia la Germania proposero
in tempi che ormai vanno collocati nell'archeologia della
tecnica fotografica, le rispettive scale, ossia quella della
American Standard Association (ASA) e la cosiddetta Deutsche
Industrie Norm (abbreviata in DIN). La prima, con una numerazione
apparentemente 'arbitraria', è anche apparentemente
più semplice perché, a un raddoppio del valore
nominale, corrisponde un raddoppio della sensibilità:
così, per esempio, una pellicola da 200 ASA è
due volte più sensibile di una da 100 ASA. Nel sistema
DIN, il valore numerico attribuito in "gradi", scaturisce
(come nel caso degli ASA anche se in questo caso è
meno lampante) da un'analisi sensitometrica che si effettua
su una data pellicola dopo lo sviluppo di immagini fotografate
per esposizioni (cioè con densità) crescenti:
l'analisi può essere illustrata con un grafico cartesiano
a forma di curva ed è per questo motivo che entrano
in gioco i "logaritmi"; questi sono espressi in
gradi, per cui, in base ad analisi di laboratorio, si stabilì,
a suo tempo, che una pellicola che produce determinati annerimenti
in determinate circostanze corrisponde, per esempio, a 21°
DIN (equivalente a 100 ASA), mentre il suo doppio si ha aumentando
il valore di tre unità (scala logaritimica), per cui
24° DIN sono il doppio di 21°, così come 17
DIN (=40 ASA) sono la metà di 20° DIN (=80 ASA).
Una trentina d'anni fa la ISO, (acronimo di "International
Standardization Organization"), l'ente che, per esempio,
decide la larghezza del vano dell'autoradio sulla plancia
dell'automobile o le dimensioni del foglio A4, tentò
una sorta di rozza sintesi fra le due scale per cui ciò
che in precedenza era stata una pellicola da 100 ASA o da
21° DIN, diventò una pellicola con sensibilità
di "ISO 100/21°".
Col tempo divenne consuetudine leggere solo la prima parte
della designazione per cui, praticamente, il risultato fu
che invece di dire ASA 100, si finì col dire ISO 100,
perdendo la parte in DIN; niente male come sintesi! E fu un
peccato perché la scala DIN diventa molto comoda quando
si deve ragionare in termini di piccole correzioni esposimetriche,
dell'ordine di terzi di diaframma: infatti, se per raddoppiare
la sensibilità si deve avanzare di tre valori di scala,
è chiaro che aumentandolo solo di uno, aumenterò
la sensibilità di solo un terzo di diaframma; due valori
DIN saranno, invece, un incremento di due terzi di diaframma.
Spesso, quando si parla di variazioni di coppia T/D rispetto
alla lettura data dall'esposimetro, si adopera anche il termine
"stop": ad una variazione di uno stop corrisponderà
una variazione sul tempo (o sul diaframma) tale da fare arrivare
la metà di luce (o il doppio, a secondo che la variazione
sia verso la sottoesposizione o verso la sovraesposizione)
rispetto alla lettura dell'esposimetro.
Esempio pratico: sto filmando sulla Ekta 100 D, con una macchina
molto versatile (e manuale!!!) come la Leicina Special, della
quale una fra le cose più apprezzabili è proprio
il bellissimo selettore per impostare la sensibilità:
se voglio evitare di avere colori troppo saturi, posso costringere
l'esposimetro di bordo a lavorare con una sovraesposizione
costante di 1/3 di diaframma; come?! Forse agendo in manuale
sulla ghiera dei diaframmi dopo che la macchina mi ha comunicato
il suo valore? Certo che no; basta impostare con quel selettore,
una sensibilità leggermente più bassa di 21
DIN, che cioè introduca una sovraesposizione costante
di un terzo di stop. Qual è questo valore? Se dovessi
determinarlo in ASA ci vorrebbe una calcolatrice; coi DIN,
basta scendere di un valore di scala, ossia impostare 20 invece
di 21; viceversa se desidero immagini più dense e colori
più saturi, devo sottoesporre di un terzo di stop,
e allora imposterò il valore DIN pari a 22 invece di
21. Più semplice di così
.
Per
completezza, esplodiamo la scala ASA e DIN facendo corrispondere
i singoli valori e notando che le due scale si intersecano
al valore 12 (molto utile da tenere a mente quando si devono
calcolare le sensibilità effettive della pellicola
adoperando i filtri).
4.
Latitudine di posa e trattamenti di sviluppo particolari
Dalla descrizione di come si calcolano i DIN, e del loro significato
intrinseco, si può forse inferire che in realtà
non è dato per scontato che una pellicola nasca già
con una sensibilità precisa in mente al tecnico che
la progetta: almeno in linea teorica, è possibile che
la sua sensibilità venga determinata a posteriori,
cioè effettuando quelle analisi sensitometriche di
cui si è detto, e vedendo con quali diaframmi in fase
di ripresa/scatto, la pellicola in questione ha fornito i
risultati migliori; è ipotizzabile che qualcosa del
genere sia accaduto soprattutto agli albori dell'era fotografica,
ma da ciò può derivare un corollario valido
ancora oggi, ossia che la sensibilità nominale (il
valore stampato sulla scatola) non va preso alla lettera,
anche perché il 95% degli scatti viene effettuato con
soggetti che presentano vari gradi di chiaro e di scuro, cioè
parti di scena che certamente sono illuminate di più
o di meno rispetto alla lettura media che un esposimetro è
in grado di fare. Insomma quasi sempre, anche quando il soggetto
principale di una foto è correttamente esposto, ci
sarà una quantità di elementi di contorno che
risulteranno più o meno leggermente sovra/sottoesposti.
Il grado di accettabilità negli esiti fotografici determinati
da questo eccesso/carenza di luce, viene detto "latitudine
di posa" (LdP): quando è ampia, anche una diaframmatura
in eccesso o in difetto di almeno due stop produce immagini
ancora accettabili; se invece la LdP è limitata, basterà
poco per rendere i dettagli in luce o in penombra non più
discernibili: si avranno, in questo caso, neri profondi e
spenti, e bianchi sfondati, ossia gli esiti tipici delle pellicole
invertibili, quelle che forniscono un'immagine positiva al
termine dello sviluppo, pronta da proiettare senza procedimenti
di stampa, e che sono la norma da sempre nel S/8. Per completezza,
va detto che, per quanto limitata, la LdP delle invertibili
attuali è quasi sempre superiore a quella della maggioranza
degli odierni apparati digitali, i cui CCD difficilmente riescono
a gestire uno scarto superiore di 1.5 stop di sovraesposizione.
Diverso
il discorso per quanto riguarda le pellicole negative: in
queste la LdP può arrivare anche a 5 stop di tolleranza
o più, sia in eccesso che in difetto, specialmente
con le emulsioni più recenti. Più precisamente,
le negative sopportano un po' meglio le sovraesposizioni rispetto
alle sottoesposizioni; esattamente il contrario del comportamento
delle invertibili: infatti se con queste si deve accettare
qualche compromesso di natura esposimetrica, è sempre
meglio "privilegiare" le alteluci (le zone più
chiare dell'immagine) chiudendo il diaframma un po' di più:
l'alto contrasto che è loro connaturato, aiuterà
a discernere ancora qualcosa nelle zone meno illuminate dell'inquadratura
(basseluci). Viceversa privilegiando le basseluci, si rischierà
quasi inevitabilmente di "sfondare" le parti più
chiare. La compensazione automatica per il controluce (backlight)
presente su molte cineprese, sfrutta questa caratteristica.
Questo discorso, comunque, va limitato a circa 1,5 - 2 stop
al massimo per le invertibili.
Da
queste premesse, muove la possibilità di esporre una
data pellicola a una sensibilità diversa rispetto a
quella nominale, compensando poi in fase di sviluppo. Per
esempio si puo ricorrere a uno sviluppo di tipo "forzato"
(push process) quando si è sottoesposto il film in
fase di ripresa. La motivazione per fare una cosa del genere
può essere tanto di tipo creativo, quanto dettata da
necessità contingenti, se ho portato con me pellicola
di sensibilità troppo bassa in relazione all'ambiente
in cui devo filmare.
Generalmente uno sviluppo forzato consiste in un allungamento
proporzionale del tempo di trattamento del primo sviluppo:
se un film di sensibilità "X" deve essere
mantenuto in quel bagno per "x" secondi, il tempo
dovrà essere raddoppiato se il film è stato
sottoesposto di uno stop, (ossia come se la sensibilità
fosse stata considerata pari a ½ X) e via di seguito.
L'entità di questa correzione va sempre indicata chiaramente
sulla pellicola inviata al trattamento specificando "push
process 1" nell'esempio di cui sopra, o "push process
2" se la pellicola è stata sottoesposta di ben
due stop (cosa possibile anche nel S/8 con le B/N: una volta
ho esposto la TRI-X come se fosse una 800 ASA, quindi con
ben due stop in più e i risultati erano comunque interessanti).
Cosa ci si può aspettare da queste pratiche "non
ortodosse"? Semplicemente un aumento della grana e del
contrasto, tanto maggiori quanto più si "forza"
la pellicola. Con certe emulsioni come la E64 esposta a 120
ASA veniva anche piuttosto bene: l'accresciuto contrasto le
dava un certo carattere. In ogni caso è consigliabile
fare vari esperimenti per conoscere bene la resa della pellicola
con cui si lavora più frequentemente, anche perché
il gusto personale gioca un ruolo molto importante in questa
circostanza.
Comunque anche la Ekta 100 D può essere esposta a 200.
Chiaramente quando si decide in questo senso è necessario
che l'intero caricatore sia esposto in questo modo. Per farlo,
si può "manomettere" la tacca sensitometrica
del caricatore: in questo modo la cinepresa esporrà
automaticamente tutta la pellicola al valore che desideriamo;
oppure si può compensare manualmente ogni inquadratura
chiudendo di uno stop ogni valore suggerito dall'esposimentro.
Con le Beaulieu e le Leicina la cosa è decisamente
più semplice: basta impostare il valore che vogliamo
sul selettore esterno. Inoltre non va sottovalutata, per quest'uso,
una rotellina presente su alcune macchine di alta fascia (pur
tutte automatiche), come - fra le altre - molte Nizo sonore
(4080, 6056, 6080 ecc.) e le Canon 814/1014 XL-S; queste cineprese
possiedono, sul lato destro, accanto al coperchio del vano
caricatore, una rotellina che permette di introdurre una sovra/sottoesposizione
costante di 1 diaframma, a scatti di terzi di diaframma. Con
questo controllo, posso girare un'intera E100 D sottoesponendola
di 1 diaframma per tutta la sua lunghezza: in pratica sarà
esattamente come se l'avessi esposta a 200 ASA, il che è
perfetto se intendo chiedere uno sviluppo forzato.
E'
anche possibile la pratica inversa, ossia sovraesporre in
ripresa (anche qui di uno o più stop) e accorciare
proporzionalmente lo sviluppo. In questo caso si abbassa la
sensibilità effettiva della pellicola, ma non aspettatevi
di guadagnare molto in fatto di finezza di grana; più
che altro ci sarà un abbassamento del contrasto, cosa
che può tornare utile se si prevede di dover stampare
o trasferire in video il filmato (queste operazioni ottico/elettroniche
introducono sempre un aumento di contrasto).
Va
notato, infine, che questo tipo di trattamenti "starati"
generalmente richiedono un costo aggiuntivo, poiché
data la natura delle correzioni, è necessario, usando
una sviluppatrice a ciclo continuo, trattare queste pellicole
separatamente.
5. In che modo la scelta della coppia T/D al posto di un'altra
può essere importante?
A questo punto facciamo un passo indietro e torniamo a parlare
di coppie T/D. Abbiamo visto che per la cellula dell'esposimetro
di bordo, una coppia vale l'altra, fintanto che si tratti
di coppie equivalenti: infatti, soddisfatta questa condizione,
esse garantiranno un grado equivalente nell'annerimento delle
parti luminose. Ma è chiaro che un diaframma invece
che un altro e un tempo di otturazione (ma sarebbe meglio
dire di esposizione) invece che un altro, possono fare davvero
delle belle differenze sul piano estetico ed espressivo; infatti
diaframmi aperti rendono sfocato lo sfondo perché riducono
la Profondità di Campo (cfr articolo al riguardo, presente
ne "La soffitta"), mentre se sono chiusi, la fanno
aumentare. Tempi di esposizione molto brevi permettono di
fermare l'attimo: è così che si ottengono quelle
immagini in cui è possibile contare le gocce d'acqua
degli spruzzi di una fontana, oppure quelle in cui un atleta
in rapido movimento sembra talmente fermo che è possibile
discernere le fibre dell'abbigliamento che indossa (all'estremo
opposto, è possibile ottenere immagini molto mosse,
che danno un'idea di "dinamismo" anche se si tratta
di foto statiche). Vediamo, adesso, in che modo tutto questo
si applica alla "fotografia in movimento" e, segnatamente,
al super 8.
Nel
cinema normalmente l'otturatore è un disco rotante
solidale alla camma che fa muovere la griffa di trascinamento
della pellicola. Il tempo di esposizione, nella stragrande
maggioranza dei casi (quasi sempre nel S/8), è fisso
ed è dato dall'ampiezza del settore aperto del disco
otturatore: maggiore la sua ampiezza, più lungo il
tempo di esposizione durante il quale ciascun fotogramma riceve
luce dall'obiettivo; normalmente questo tempo è fra
1/40 e 1/50 di secondo. Pertanto le possibilità creative
a cui si accennava sopra, sono molto limitate e circoscritte
al modo in cui si adopera il diaframma: se voglio usare diaframmi
molto chiusi per avere buona PdC, non è possibile aumentare
il tempo di esposizione, come farei con una reflex: devo ricorrere,
in prima battuta a più luce e/o a una pellicola più
sensibile. Se invece voglio minor PdC devo usare meno luce
e/o una pellicola meno sensibile e/o filtri grigi. Ci sarebbero
altri parametri, ma per questi si rimanda all'articolo sulla
PdC.
Esiste, tuttavia, un numero molto ridotto di cineprese S/8
dotate di otturatore variabile; nella maggior parte dei casi,
questa caratteristica serve essenzialmente a ottenere dissolvenze
di vario tipo senza dover agire sul diaframma; ma in alcune
di queste, come le Beaulieu della serie ZM e la Canon 1014
E, si può impostare un certo tempo di otturazione,
anche molto breve, per avere effetti dinamici particolari:
una sequenza filmata con tempi di esposizione più brevi
di 1/100 di secondo, crea un forte effetto "strobo",
perché ciascun fotogramma porta impresso il movimento
avvenuto sulla scena per un tempo più breve del normale
e, di conseguenza, aumenta lo "staccato", la "distanza
dinamica" che separa ciascun fotogramma da quelli precedenti/seguenti
impedendo, in proiezione, che ciascun fotogramma si "fonda"
con quelli adiacenti per creare un continuum (relativamente)
fluido. Panoramiche e movimenti rapidi assumono una caratteristica
simile a quella di un disegno animato perché ciascun
fotogramma è più netto rispetto ai risultati
che si ottengono con un tempo di esposizione standard. Immagini
"filate" a parte, se si vuole avere un'idea più
precisa di quanto descritto, si veda la sequenza dello sbarco
in Normandia del film Salvate il soldato Ryan (USA 1993, di
S. Spielberg); dietro quella sensazione quasi di vertigine,
specie nelle immagini più crude con macchina a spalla,
c'è proprio l'uso di un tempo di otturazione molto
breve, unito (ma questo è del tutto secondario) a una
lieve de-sincronizzazione fra griffa e otturatore che ha reso
possibile quei bianchi del cielo e delle parti chiare che
"sbavano" sulle parti più scure (per inciso,
quest'ultimo effetto non è assolutamente ottenibile
col S/8 se non modificando una cinepresa in un modo tale da
renderla inutile per ogni altro uso).
Comunque
anche nelle cineprese con apertura fissa dell'otturatore,
ci si può preoccupare del tempo di esposizione allorquando
si voglia filmare con cadenze di ripresa diverse dallo standard
(che, per quanto ci riguarda, è 24 fps): infatti occorre
sapere che se si filma a 72 fps per ottenere un effetto di
rallentamento in proiezione, il tempo di esposizione sarà
molto più breve del solito. Poiché 72 fps è
tre volte 24, se a questa velocità il tempo è
solitamente pari a 1/50 di secondo, a 72 sarà pari
a 1/150 di secondo. Per avere un'esposizione equivalente a
quella che si avrebbe filmando la medesima inquadratura a
24 fps, occorrerà aprire il diaframma di uno stop e
mezzo. E se c'è luce sufficiente, questo non sarà
un problema, altrimenti converrà usare una pellicola
più sensibile. In ogni caso la PdC potrebbe essere
inferiore e anche questo può essere usato a fini creativi,
specie se decido di filmare scene statiche a frequenze elevate.
Un'altra cosa a cui prestare attenzione sono le panoramiche,
specialmente quelle orizzontali: se si filma una panoramica
con un tempo di 1/96 circa (succede con la Beaulieu 6008 impostata
per esposizioni "normal") il risultato sarà
a scatti. Meglio allora, usare un tempo di otturazione più
lungo, impostando il relativo controllo su "L.L."
(=bassa luce): ciò fa lavorare la cinepresa con un
tempo di esposizione molto più lungo e le panoramiche
risultano più morbide.
6.
Il colore e la temperatura cromatica
All'inizio dell'articolo, abbiamo detto che "per semplicità"
avremmo trattato le pellicole in bianco e nero. Adesso inizieremo
a parlare un po' del colore, che alla fine è quello
con cui tutti noi siamo più pratici e che, statisticamente,
ci interessa di più quando effettuiamo le nostre riprese.
Usando pellicola a colori, occorre tener presente che l'emulsione
fotografica non distingue i colori così come fa l'occhio
umano, ossia adattandosi e compensando per i vari tipi di
luce in cui ci si può venire a trovare. Infatti finché
non ci si interessa di fotografia, sembrerebbe che la luce
di un neon non sia poi molto diversa da quella del sole se
non per la diversa intensità. Magari ci si accorge
che la luce di una candela è diversa da quella di un
faretto alogeno, ma non si riesce a concettualizzarne il motivo
oltre la solita cena a lume di candela.
Il tipo di bianco emesso dalla sorgente luminosa che stiamo
considerando viene definito "Temperatura di colore"
di quella tipologia di sorgente. Di conseguenza il neon avrà
una sua temperatura di colore, il sole un'altra e così
via. Questo valore è definito temperatura non a caso,
infatti corrisponde alla temperatura assoluta a cui si deve
riscaldare il corpo nero per emanare la luce che si sta studiando
e, come tale, viene indicata dalla scala Kelvin. Attenzione,
a differenza delle altre scale di temperatura, la Kelvin non
riporta il "pallino" per indicare i gradi e si dirà
semplicemente, ad esempio, 12000 Kelvin (abbreviati con K)
e non 12000 gradi Kelvin, così come non si userà
l'indicazione °K.
Da analisi spettrometriche si è stabilito che la luce
diurna oscilla fra i circa 5.000 e i 9000 K, mentre i valori
delle normali lampadine da casa stanno intorno ai 2000 (quelle
a risparmio energetico intorno a 4000K).
Tutta questa situazione ha costretto i vari fabbricanti di
pellicole a stabilire due grandi famiglie di emulsione colore:
le pellicole per luce diurna o naturale (D=daylight) e le
pellicole per luce artificiale (T= tungsten). Le prime sono
"tarate" per una temperatura cromatica di 5.500K,
mentre le seconde sono tarate a 3200K (tipo "B")
e 3400K (tipo "A", come il vecchio Kodachrome40).
In pratica, un oggetto bianco verrà impressionato sulla
pellicola esattamente come bianco (e non rossiccio o bluastro)
ogniqualvolta verrà illuminato da una luce che ha la
stessa temperatura di colore di riferimento della pellicola.
Attenzione: per luce artificiale non si intendono le classiche
lampadine, bensì appositi illuminatori alogeni in grado
(col loro filamento al tungsteno), di produrre quella specifica
temperatura cromatica: la ragione per cui molti film amatoriali
del passsato sono spesso rossicci e scuri è perché
vennero filmati con la luce sbagliata.
Mediante l'uso di filtri, detti di "conversione",
è possibile adattare un'emulsione concepita per l'utilizzo
in luce artificiale, all'utilizzo con luce diurna. Questi
filtri, però, tendono ad assorbire attorno ad uno stop
di luce (in genere 2/3 di stop per i filtri di conversione
inseriti nelle cineprese) per cui è sempre preferibile
usare una pellicola specifica per la luce in cui si deve filmare.
I filtri di conversione vengono indicati nel programma Kodak
secondo la designazione "Wratten", ormai universalmente
accettata; i filtri n° 85 e 85B sono di color arancio
e convertono le pellicole per luce artificiale (rispettivamente
per i 3400K e i 3200K) alla luce del sole. Il filtro 80, invece,
serve per l'esatto contrario. E' questo il filtro che si deve
usare con la nuova Ektachrome 100 D quando vogliamo filmare
in interni usando un faretto alogeno (beninteso, dopo aver
escluso il filtro incorporato nella cinepresa). Questi filtri,
purtroppo, assorbono una quantità di luce che varia
da 1 ½ stop a 2 ½ stop.
7. La questione del filtro di conversione incorporato
Cercheremo, a questo punto, di chiarire perché per
oltre 40 anni, lo standard colore del S/8 è stato di
3400K, cioè luce artificiale tipo A, per poi cambiare,
a partire dal 2010, in luce diurna, cosa, come vedremo, meno
vantaggiosa.
Infatti, come si è accennato, qualunque filtro di conversione
ruba luce, riducendo la sensibilità effettiva: non
a caso il vecchio K40 veniva esposto a 25 ASA, quando usato
in luce diurna. E la da poco defunta E64 veniva esposta a
40 ASA, sempre in luce diurna. La "ratio" dietro
tutto questo era che, per un dilettante, è molto meglio
poter sfruttare appieno la sensibilità nominale della
pellicola quando si opera in interni con (presumibilmente)
una fonte di luce artificiale; mentre in esterni, sotto il
sole, il fatto di dover perdere due terzi di diaframma per
via del filtro, rappresentava il male minore.
Oggi però, le cose si sono invertite, per cui sotto
il sole si ha fin troppa sensibilità e, con 100 ASA,
è abbastanza frequente che si debba lavorare con diaframmi
troppo chiusi, spesso anche ben oltre F 11 (quando il sole
splende allo zenit), il che significa stare fuori da quel
range all'interno del quale l'ottica riesce a dare il meglio
di sé (fra circa F5.6 e F11); sarà consigliabile,
a questo punto, ricorrere a filtri grigi a densità
neutra (l'ND2 obbliga ad aprire l'obiettivo di uno stop, ma
ce ne sono anche di più forti). Inoltre se si deve
filmare in interni con un faretto alogeno, occorrerà
utilizzare un filtro blu CC80 che assorbe, come accennato,
circa due diaframmi, cioè molto più di quanto
assorbiva l'85; in questa situazione, la sensibilità
effettiva della Ekta 100 si riduce a soli 25 ASA, mantenendo
la grana di una pur ottima 100. Ovvio che il filtro andrà
avvitato sull'obiettivo, per cui sarà visibile nel
mirino (a differenza di quello incorporato che, Beaulieu a
parte, si trova a valle del prisma che invia l'immagine al
mirino). Inoltre, d'ora in avanti, sarà bene abituarsi
a interpretare i simboli presenti sulla cinepresa nel modo
che segue: lampadina=filtro arancione disinserito (il settaggio
da usare con al nuova 100 D); sole=filtro arancione inserito
(da usare in luce diurna solo per terminare qualche vecchia
emulsione per luce artificiale). Non escludo, anzi auspico,
che qualche intraprendente tecnico esperto di cineprese, inventi
un modo per sostituire il filtro interno con quello blu, necessario
con le emulsioni attuali, in modo da restituire significato
ai simboli di cui sopra e da evitare la scomodità di
un filtro blu davanti all'obiettivo.
Va anche detto che diverse cineprese possiedono un sensore
che permette il disinserimento automatico del filtro quando
si usa la 100 D (o la Velvia), per esempio quasi tutte le
Nizo e le Canon. Eccezioni eccellenti (fra le tante): Beaulieu,
Bauer S715 XL, Leicina Special. Si tratta di un dentino che
normalmente riposa in una tacca posta sulla flangia frontale
del caricatore, nella parte bassa (v. foto più avanti);
questa tacca, però, si trova(va) solo sui caricatori
con pellicola per luce artificiale, nei nuovi è assente,
per cui, nelle cineprese più dotate, il sensore viene
azionato all'atto dell'inserimento della cartuccia e un sistema
di levette interne provoca il disinserimento del filtro. La
cosa vale anche per il B/N.
8. Il vano caricatore
La parte della cinepresa dove va inserita la cartuccia di
pellicola, può essere piuttosto interessante per l'eventuale
presenza di organi vari che permettono alla cinepresa di venire
informata sul tipo di pellicola presente nel caricatore. Le
foto che seguono mostrano questo alloggiamento di tre diverse
cineprese, per consenitire al lettore di individuarne similitudini
e differenze. Per tutte, vale la seguente legenda e l'avvertimento,
quando la definizione è in corsivo, che quel certo
elemento è sempre presente:
1 - microcontatti (uno o più) per la lettura della
sensibilità della pellicola; questi microswitch vengono
azionati dalla tacca presente sul caricatore: maggiore l'ampiezza
della tacca, più alto il numero di contatti che non
viene azionato, maggiore la sensibilità rilevata. Ovviamente
più sono numerosi questi contatti, più versatile
sarà la cinepresa. Nei modelli di fascia bassa, è
presente un solo microswitch: in questo caso la cinepresa
è in grado di gestire due sole sensibilità (conformi
alle pellicole disponibili all'epoca): 25 e 100 ASA (con filtro
inserito) o 40 e 160 ASA (con filtro escluso). Abbastanza
incomprensibile la scelta della Bauer di dotare la sua ammiraglia
S 715 di un corredo, per quanto riguarda questo aspetto, degno
di una cinepresa giocattolo o comunque entry-level. In alcuni
modelli, specie i meno recenti, la batteria di contatti può
essere costituita da un piccolo sensore meccanico a slitta
che agisce su una resistenza variabile: si tratta della soluzione
migliore poiché permette di adattarsi a molte diverse
sensibilità, senza le complicazioni connesse all'adozione
di un circuito elettronico multiplo (come è necessariamente
quello dotato di vari contatti).
2 - perno di allineamento: serve ad agevolare il corretto
inserimento della cartuccia.
3 - guidapellicola (gate in inglese) completo di quadruccio
di ripresa e griffa di trascinamento: è una delle parti
più importanti di ogni cinepresa: va ad incastrarsi
automaticamente nel pressore presente nell'apposita finestrella
del caricatore e permette il corretto trascinamento della
pellicola. Può essere di metallo o di plastica, brunito
o argentato: dalla sua precisione costruttiva dipende, in
parte, la qualità dell'immagine filmata.
4 - perno per l'inserimento del contametri che, normalmente
non attivo senza caricatore, si azzera appena questo viene
estratto.
5 - sensore per la rilevazione della tacca del filtro: in
presenza dell'apposita tacca, questo sensore resta inattivo
e la cinepresa rileva che si tratta di pellicola a colori
per luce artificiale.
6 - nottolino di avvolgimento: si tratta di un perno azionato
con una cremagliera dallo stesso motore della griffa; debitamente
frizionato, consente l'avvolgimento della pellicola, con un
numero di rotazioni che deve variare continuamente dall'inizio
della cartuccia alla fine, poiché il diametro della
"pizzetta" di film all'inizio è piccolo,
ma cresce gradualmente per tutta la durata delle riprese.
Ne consegue che il supporto su cui è montato quest'organo
deve avere una certa capacità di slittamento ad evitare
che possa forzare o "scippare" la pellicola alla
griffa con esiti disastrosi per la stabilità di quadro.
7 - microswitch per l'attivazione dei circuiti sonori: veniva
azionato solo dai caricatori sonori e, grazie a questo, veniva
attivato il capstan di trascinamento sonoro (v.oltre).
8 - capstan: dotato di volano e azionato da un motore apposito,
permettava, grazie anche alla pressione di un rullo gommato
che qui non è visibile, di stabilizzare la velocità
della pellicola eliminando il trascinamento a scatti indotto
dalla griffa.
9 - testina di registrazione sonora.
Ovviamente gli organi degli ultimi tre punti si trovano solo
sulle cineprese sonore
9.
Mirino e sistema di traguardazione (attenzione agli esposimetri
esterni!)
La maggior parte delle cineprese super 8 presenta un mirino
di tipo reflex, anche se alcuni rari modelli (inclusi i primissimi
esemplari prodotti dalla Kodak al momento del lancio del formato,
nel 1965) hanno un mirino a visione diretta o "galileiano".
Il solo vantaggio di questa soluzione è che l'immagine
è leggermente più luminosa rispetto a quella
di un mirino reflex e non ruba luce alla pellicola. Al di
là di questo, un mirino non-reflex non dà alcun
vantaggio, anzi: l'immagine impressionata sulla pellicola
è leggermente diversa (come inquadratura) rispetto
a quella che si vede nel mirino, poiché la finestrella
di quest'ultimo ha un punto di vista che è molto vicino
a quello dell'obiettivo, ma non è identico. Per cui
filmando a distanze ravvicinate, si rischia di tagliare le
teste o qualche altro elemento. Inoltre un mirino galileiano
non consente di gestire in maniera semplice le variazioni
di focale di un obiettivo zoom.
Per quanto riguarda i mirini reflex, due sono le soluzioni
adottate dai costruttori di cineprese S/8: la più diffusa,
e che le rende piuttosto diverse da una macchina fotografica
reflex, è il prisma semiriflettente (beamsplitter):
questo elemento ottico "ruba" una parte di luce
destinata alla pellicola e la invia al sistema di traguardazione
del mirino. L'entità di questo furto varia da cinepresa
a cinepresa: per esempio nel caso della Leicina, la casa dichiara
una perdita di luce di appena il 10%. Cineprese meno blasonate,
possono "rubare" di più. Ma i furti non finiscono
qui, perché anche la fotocellula dell'esposimetro (se
è TTL - v. voce in fondo), richiede luce per effettuare
la misurazione. Anche qui i vari costruttori hanno escogitato
più di una soluzione: dal furto di luce aggiuntivo,
il che vuol dire che ne arriva ancora di meno sulla pellicola),
a un'ulteriore suddivisione della luce a valle del prisma
del mirino (come nella Leicina, che quindi limita il tutto
comunque al 10%, come appena visto), al sistema (il più
elaborato) dell'otturatore rivestito di una vernice riflettente
rivolta verso l'obiettivo, da cui la fotocellula legge la
luce; quest'ultimo sistema, peculiare di alcune Nizo, è
forse il miglior compromesso, poiché ruba poca luce
alla pellicola ma anche alla visione reflex del mirino. Quindi,
anche quando si parla di cineprese XL, c'è tipo e tipo
e, a parità di (poca) luce, due diverse cineprese potrebbero
dare risultati abbastanza diversi anche usando la medesima
pellicola. Va inoltre detto che la presenza di alcuni tipi
di specchi per l'esposimetro, può rendere deleterio
l'uso di filtri polarizzatori (v. § successivo), in quanto
possono interferire con la fotocellula, determinando una lettura
sbagliata; in questo casi diventa d'obbligo l'uso di un polarizzatore
circolare (ahimé, molto più costoso). Il vantaggio
davvero importante di questo sistema, se la cinepresa presenta
ottica fissa, è che il mirino lavora sempre alla massima
luminosità, dato che il diaframma è posizionato
dopo il prisma che invia la luce al mirino; quindi l'immagine
è sempre molto chiara e relativamente facile da focheggiare,
pur in assenza di un vero piano di messa a fuoco smerigliato.
Infatti con questa tipologia di macchine, gli ausilii per
questa operazione sono il classico telemetro a spezzatura
di immagine (orizzontale o obliqua), la crocetta centrale
di messa a fuoco aerea e il sistema di messa a fuoco dicroica
(molto rara) in cui la sfocatura viene evidenziata da flange
arancioni e bluastre attorno al soggetto, che spariscono quando
è tutto OK.
L'altro sistema reflex, esclusivo della Beaulieu, è
il sistema a specchio montato su un otturatore a ghigliottina:
si tratta di una soluzione senz'altro molto più simile
a quello di una macchina fotografica. In questo caso, infatti,
durante la ripresa, la luce viene inviata alternativamente
alla pellicola o al mirino, ma sempre nella misura del 100%
e senza la frapposizione di (in questo caso) inutili prismi
o altri elementi ottici.Va da sé che nel mirino l'immagine
sfarfalla durante la ripresa e l'immagine è diaframmata,
per cui per fare la messa a fuoco ci si deve ricordare di
aprire il diaframma al massimo (per ridurre la PdC e facilitare
l'operazione).
"
|
|
A
questo punto bisogna aggiungere che, per le ragioni esposte,
non è sempre facile o raccomandabile servirsi di un
esposimetro esterno per determinare la giusta apertura, poiché
solo l'esposimetro di bordo può tenere in debita considerazione
le variabili derivanti dall'architettura del sistema di traguardazione
e le conseguenti cadute di luce. In generale, c'è una
discrepanza media fra il valore di diaframma impostato in
automatico e quello suggerito da un esposimetro esterno di
circa uno stop in più, ossia la cinepresa tende ad
"aprire" di più perché ci sono perdite
di luce non previste dal costruttore dell'esposimetro. Per
cui, se proprio lo si vuole usare, è indispensabile
fare dei confronti fra le due letture, in modo da determinare
con certezza quale sia lo scostamento. E senza dimenticare
che in alcuni casi è possibile usare tutta la cinepresa
come fosse un esposimetro di tipo "spot", semplicemente
giocando con lo zoom e la funzione di blocco dell'esposizione,
cioè isolando il dettaglio più rilevante del
soggetto e misurando su questo il valore di diaframma da impostare.
Una volta bloccatolo sulla scala, si riporta lo zoom alla
composizione desiderata e si filma.
Quasi
tutte le cineprese consentono la correzione diottrica dell'oculare
del mirino, anche quelle di fascia media, in genere in una
gamma di valori che va da -3 a +3 diottrie. Questo serve per
fare in modo di poter appoggiare l'occhio al mirino senza
gli occhiali, cosa che permette di vedere tutta l'immagine
senza difficoltà. Allo stesso tempo, tutte le informazioni
ivi visibili (telemetro, scala diaframmi, spie di vario tipo)
non creano stress all'occhio dell'operatore, in quanto già
focheggiate dalla regolazione diottrica. Ma per evitare che
questa comodità diventi un'arma a doppio taglio quando
si filma, è necessario regolare il sistema diottrico
prima (e una volta per tutte) di fare il fuoco, altrimento
si rischia che il girato sia sfocato. In genere si può
procedere così: macchina su cavalletto, zoom al massimo
tele, ghiera delle distanze su infinito e inquadratura su
qualcosa di verticale ad almeno 30-40 m di distanza, per esempio
un palo della luce; a questo punto si può agire sulla
correzione diottrica fino a quando il palo appare senza "fratture"
nel disco del telemetro.
Un altro metodo è quello di mettere la camera esattamente
a una breve distanza da un soggetto verticale per esempio
il bordo di un muro a 3 m netti, misurati con la fettuccia,
la ghiera delle distanze sul valore corrispondente e lo zoom
sempre al massimo. Quindi si agisce sulle diottrie fino a
quando non si ottiene lo stesso risultato di cui sopra. A
questo punto si può avere la certezza di lavorare con
un certo comfort visivo e di avere immagini a fuoco, sempre
che non ci sia qualche problema interno (da cui l'importanza
di testare sempre una cinepresa appena acquistata).
Per chi non volesse complicarsi troppo la vita, è sempre
possibile filmare a "fuoco fisso", se c'è
abbastanza luce: basta mettere lo zoom sul valore di 15 mm
e la ghiera delle distanze su un valore compreso intorno a
4-6 m; in genere questa combinazione è evidenziata
col diverso colore con cui questi valori sono stampati sulle
rispettive ghiere. Se si può diaframmare ad almeno
F 5.6 (o con valori più chiusi), si può sfruttare
una PdC che permette di avere tutto a fuoco da brevi distanze
all'infinito; volendo si può anche zoomare verso il
grandangolo (mentre è assolutamente sconsigliabile
zoomare in zona "tele").
10.
Alcune informazioni sui filtri
Nell'uso del S/8, come anche in fotografia, ci sono dei filtri
che conviene sempre avere con sé, e in particolare,
ce n'è uno che è buona norma lasciare sempre
avvitato sull'obiettivo: il filtro UV o anche skylight che
assorbe le radiazioni più fredde della luce solare,
ma soprattutto protegge la lente frontale dell'obiettivo.
Altri
filtri utili sono senz'altro un filtro ND 2, ossia un filtro
grigio e uniforme, utile filmando in pieno sole con la nuova
Ektachrome 100 D, che costringerebbe il diaframma a lavorare
a valori troppo chiusi. Inoltre non va sottovalutato il polarizzatore
(che nel caso delle S/8 è preferibile sia del tipo
circolare, invece che lineare, a causa dei prismi presenti
nel sistema ottico, ma ci sono eccezioni): esso è utile
per eliminare o attenuare i riflessi dalle superfici non metalliche
(è così che si ottengono quelle foto di barche
che sembrano levitare piuttosto che galleggiare sull'acqua).
L'effetto è massimo quando la sorgente di luce si trova
a 90° di angolazione rispetto all'asse cinepresa-soggetto.
Se
si usa il B/N, può tornare utile anche la classica
terna di fitri dedicati: il giallo, il verde e il rosso; servono
per controllare e variare il rapporto fra le sfumature di
grigio in cui le emulsioni B/N "traducono" i vari
colori, influenzando, in definitva, anche il contrasto. Nel
loro uso si deve tener presente che il filtro schiarisce gli
elementi della scena che hanno lo stesso (più o meno)
colore del filtro stesso, mentre scurisce gli elementi di
colore complementare. Pertanto, se si tiene in considerazione
la foto 1, scattata senza filtri, si rileva che:
il filtro giallo (foto 2) scurisce il blu ed elimina il viola,
mentre schiarisce i grigi relativi al giallo, verde, arancione
e rosso. Utile, quindi, nella ripresa di paesaggi con una
certa quantità di cielo e nuvole: queste spiccheranno
maggiormente contro il cielo reso un po' più scuro
dal filtro;
il
filtro verde (foto 3) ha un effetto simile al giallo ma con
la differenza che scurisce il cielo molto di più, oltre
a scurire ciò che in natura è rosso; quindi
può servire per far risaltare un fiore rispetto al
gambo, o per dare un ché di drammatico a un ritratto,
rendendo più visibili eventuali imperfezioni della
pelle. Molto utile nelle riprese naturalistiche;
il
filtro rosso (foto 4) è utile nella riprese di palazzi,
poiché ne schiarisce le facciate e allo stesso tempo
scurisce il cielo. Migliora il contrasto nelle foto a distanza
di soggetti naturalistici.
Ovviamente
si tratta di linee guida di massima, essendo impossibile prevedere
in questa sede le infinite variabili delle situazioni che
si possono presentare durante delle riprese. Comunque la regola
aurea che va tenuta sempre a mente nella foto B/N è
che il contrasto è dato solo dalle luci, (che si traducono
in grigi), data l'assenza del colore; ne consegue che nella
foto di soggetti con diversi colori ma di medesima luminosità,
verranno fuori densità di grigi similari. Si parla,
in questo caso, di scarsa separazione tonale. E' per questo
motivo che spesso le immagini in B/N possono sembrare piatte
e un po' scialbe, troppo neutre, insomma. I filtri per il
B/N servono proprio a ovviare a questi problemi e vanno scelti
dopo aver deciso quale parte della scena schiarire (=colore
del filtro il più possibile simile) a scapito delle
parti da scurire.
11. Un po' di sigle e definizioni (nel Super 8 e non solo)
AE
lock: blocco dell'esposizione automatica; utile per rilevare
la giusta esposizione di un particolare importante di una
scena (magari con lo zoom al massimo), bloccare il diaframma
su quel determinato valore suggerito dalla macchina e poi
ricomporre l'inquadratura senza che vengano introdotte variazioni.
Utile anche per evitare effetti di "pompaggio" a
seguito di una repentina, momentanea e inaspettata variazione
della luce della scena inquadrata, per esempio filmando in
movimento da un'automobile che percorre una strada in mezzo
a un bosco, con la luce del sole che filtra in maniera disomogenea
fra i rami degli alberi.
Angolo
di campo: valore espresso in gradi sessagesimali che esprime
quanto del soggetto e di ciò che lo circonda può
essere incluso nel fotogramma, in senso diagonale. Dipende
dalla focale impiegata ed è inversamente proporzionale
a questa: minore la focale, maggiore l'angolo di campo. I
grandangolari più spinti nel S/8 arrivano a coprire
un angolo intono a circa 80-82°, ma solo utilizzando aggiuntivi
dedicati (Schneider UWL, Canon Wide Attachment e Eumig/Bolex
PMA), che lavorano in campo macro e precludono la possibilità
di zoomare. Sulle ottiche a focali variabili, il valore massimo
che si riscontra è pari a 55° di copertura, che
si raggiunge in presenza di una focale di 6 mm (non molto
diffusa).
Backlight:
automatismo per compensare il controluce. Inquadrando una
persona ripresa mentre si staglia contro un cielo luminoso,
è molto probabile che l'esposimetro di bordo si lasci
ingannare dalla luce proveniente da dietro, impostando un
diaframma che permetterà di vedere eventuali nubi,
ma renderà il soggetto troppo scuro. In questo caso
è opportuno aumentare l'apertura di almeno uno stop.
Utile anche sulla neve e sulla sabbia (ma ricordarsi di disinserirlo
subito dopo il suo utilizzo).
Base
del film: v. "supporto".
Carrellata
ottica: parente povero delle carrellate ottenute, nel cinema
professionale, con la macchina che avanza su un supporto che
si muove su binari. L'effetto può essere a "stringere"
o ad "allargare": nel primo caso si passa da un
valore dello zoom numericamente basso (=l'obiettivo abbraccia
un campo ampio) e uno più alto (=l'obiettivo abbraccia
un campo più stretto, isolando un dettaglio); viceversa
nel secondo caso. Tra la carrellata ottica e il vero carrello
del cinema professionale esiste una grande differenza: l'impressione
di avvicinamento o di allontanamento della carrellata ottica
è frutto rispettivamente di un ingrandimento o di una
riduzione dell'immagine che avviene internamente all'obiettivo
grazie a una variazione di un gruppo di lenti poste al centro
del barilotto; di conseguenza vi è solo una variazione
nelle dimensioni dei soggetti inquadrati, ma non della prospettiva
e - quindi - dei rapporti fra dimensioni dei vari elementi.
Non così nel carrello vero, poiché la macchina,
spostandosi fisicamente verso o dal soggetto principale, fa
variare anche le proporzioni relative fra i vari elementi;
per esempio, avvicinando la camera al soggetto, un elemento
intermedio posto fra questo e la MdP, sembrerà aumentare
di dimensioni più rapidamente del soggetto principale,
in quanto più vicino. Quindi con la carrellata ottica
a "stringere" si tende ad appiattire la profondità
della scena inquadrata, mentre il carrello vero tende ad esaltarla.
Direct
Sound: designa quelle cineprese che accettano il caricatore
sonoro (ormai fuori produzione dal 1997) e che sono in grado
di registrare l'audio direttamente sulla pista magnetica presente
su quel tipo di pellicola. Tutte queste cineprese possono
accettare anche il caricatore muto.
EE:
acronimo dell'inglese Electric Eye (occhio elettrico). Una
definizione fantasiosa diventata in auge all'indomani dell'introduzione
dell'esposimetro automatico incorporato nella cinepresa (o
nella macchina fotografica). Generalmente nel S/8 l'esposimetro
è sempre incorporato, l'esposizione è sempre
automatica e, nei modelli di fascia media e alta, l'automatismo
è disinseribile.
Fade
in/out: sistema automatico per le dissolvenze in ingresso
e in uscita (dette anche dissolvenze semplici). In genere
l'automatismo blocca la macchina una volta che il diaframma
o l'otturatore (se è di tipo variabile) hanno raggiunto
la chiusura totale.
EE
lock: v. AE lock.
Emulsione
fotosensibile: (v. gelatina)
Gelatina:
la parte della pellicola stesa sul supporto (v.) che viene
impressionata durante le riprese.
Lap
(dissolve): dissolvenza incrociata; consiste in una dissolvenza
in chiusura e una in apertura perfettamente sovrapposte, previo
riavvolgimento di quei circa 90 fotogrammi interessati dall'effetto.
Poiché il caricatore S/8 non permette lo svolgimento
al contrario della pellicola appena esposta (a causa di un
sistema di ritegno interno che può essere escluso solo
dal laboratorio di sviluppo prima di estrarre la pellicola
dalla cartuccia), i progettisti escogitarono un espediente
molto ingegnoso: la cinepresa blocca il nottolino di avvolgimento
appena ha inizio la prima fase (chiusura) della dissolvenza
incrociata; di conseguenza la pellicola, pur trascinata dalla
griffa, non viene avvolta, ma resta lasca nella metà
del caricatore che riceve la pellicola dopo l'esposizione.
Appena terminata la prima operazione, la cinepresa si blocca
(in automatico nei modelli più "recenti")
e riavvolge l'esatta quantità di pellicola, grazie
alla griffa che, muovendosi al contrario, respinge quei 90
fotogrammi nella parte "vergine" del caricatore.
Quando il riavvolgimento è terminato, la cinepresa
si ferma e si predispone per l'esecuzione della seconda parte
dell'effetto, la dissolvenza in apertura.
Lenti
addizionali: si tratta di lenti di gradazione variabile, espressa
in diottrie (p. es. +1, +2 ecc.) che permettono di accorciare
sensibilmente la distanza minima di messa a fuoco, anche (e
specialmente) su obiettivi privi di possibilità "macro"
(v.); lasciano immutate le possibilità di zoomata,
ma hanno una profondità di campo (v.) molto ridotta
e introducono aberrazioni cromatiche piuttosto fastidiose,
specialmente a diaframmi estremi.
Lunghezza
focale: valore espresso in mm che in origine denotava la distanza
fra la lente frontale dell'obiettivo e il piano di scorrimento
pellicola. Maggiore la distanza, più stretto l'angolo
di campo (v.). Oggi questa definizione ha perso largamente
di significato, poiché, grazie a una progettazione
al computer delle lenti, si è riusciti a ottenere obiettivi
di notevole lunghezza focale con un corpo molto più
compatto che in passato. Comunque il dato numerico espresso
quando si parla di un certo obiettivo serve ancora per capire
subito se si tratta di un "normale", di un "grandangolo"
o di un "tele", anche se queste definizioni hanno
senso solo in rapporto al formato utilizzato: infatti un obiettivo
con 10 mm di focale è un "normale" nel S/8,
ma è già un discreto grandangolo nel formato
16mm.
Macro:
termine che sta a indicare la capacità di un obiettivo
di mettere a fuoco a una distanza inferiore rispetto a quella
minima canonica di 1,5 m. Ciò si ottiene, in genere,
lavorando all'estremo grandangolare delle focali (previo azionamento
di una levetta o di una sottile ghiera aggiuntiva posta fra
obiettivo e corpo macchina), ma rinunciando alla possibilità
di zoomare, poiché per effettuare la messa a fuoco,
si mette la ghiera delle distanze su "infinito"
e si utilizza l'anello delle focali. Alcuni obiettivi permettono
anche (o solo) la macro all'estremo opposto: fra queste vanno
ricordate la Canon 1014/814 XL-S, la Bauer S 715 XL e gli
Schneider Optivaron 6-66 mm montati su Leicina e Beaulieu;
in questi casi l'uso dello zoom non viene compromesso (perlomeno
ad alcune focali).
Numero
F: numero che indica l'apertura relativa dell'obiettivo alle
diverse impostazioni del diaframma.
Numero
T: scala delle aperture dell'obiettivo che tiene conto della
quantità di luce che va dispersa durante il passaggio
fra le varie parti dell'obiettivo; rappresenta, quindi, il
valore dell'effettiva trasmissione di luce alla pellicola.
Obiettivo:
l'elemento ottico che focalizza le immagini sulla pellicola.
A seconda della lunghezza focale (v.) può essere normale,
grandangolare o tele. Nel super 8 è considerata normale
una focale intorno ai 9-10 mm, mentre sono grandangolari tutte
le focali di valore inferiore e sono tele tutte quelle di
valore superiore. Gli obiettivi possono avere focale fissa
(e quindi sono detti anche "primari" o "prime
lenses" in inglese), o variabili e in questo caso sono
detti "zoom".
Power
zoom: escursione ottica dell'obiettivo a focale variabile,
ottenuta grazie a un servomotore dedicato o, nei modelli meno
pregiati, accoppiando degli ingranaggi al motorino di trascinamento
pellicola. Curioso notare che il principio del tasto a bilanciere
che governa la variazione focale in avvicinamento o in allontanamento,
presente su praticamente tutti i modelli, ha lasciato una
sorta di eredità anche nelle attuali videocamere, che
presentano controlli molto simili, come principio, se non
identici.
Profondità
di campo: lo spazio avanti e dietro il soggetto principale
ancora a fuoco rispetto alla distanza nominale camera-soggetto.
Per una trattazione approfondita, si rimanda all'articolo
specifico presente ne "La soffitta".
Single
8: sistema a passo ridotto proposto dalla Fuji, che presenta
dimensioni analoghe (larghezza, passo ecc.) a quelle del S/8,
ma diversa cartuccia. Il supporto (v.) è di poliestere
e questo permise l'adozione di un caricatore molto compatto
pur con i classici 15 m di pellicola.
Stop-down:
tipo di misurazione esposimetrica "collaterale"
alla lettura TTL (v.), ma poco usata nel S/8, dove prevale
la lettura TTL a tutta apertura. Questo perché la luce
inviata alla fotocellula esposimetrica, viene prelevata da
un prisma che si trova a valle del prisma-mirino e del diaframma:
di conseguenza l'apertura di quest'ultimo non è rilevabile
nel mirino neppure durante la ripresa (ma non lo è
neppure la PdC). Le uniche macchine che hanno lettura di tipo
stop-down sono la Leicina e le Beaulieu, ossia tutte cineprese
(non a caso) a ottica intercambiabile; in entrambi i casi,
nel mirino è possibile vedere la luce trasmessa dal
diaframma (quindi si può anche controllare visivamente
la PdC). Per evitare che ciò possa interferire con
l'operazione di messa a fuoco, sia la Beaulieu 6008 che la
Leicina Special hanno un pulsante che istantaneamente apre
il diaframma alla massima apertura e porta la focale al massimo
valore disponibile.
Supporto:
la parte della pellicola su cui è stesa l'emulsione
fotosensibile (detta anche gelatina, v.); generalmente nel
Super 8 il materiale di cui è costituito il supporto
è il triacetato di celluloide che può essere
giuntato in fase di montaggio sia con un liquido solvente
a base di acetone, sia a secco con del nastro adesivo apposito
(da perforare o preperforato; ma comunque con caratteristiche
tali da non rilasciare sostanze collose neppure in caso di
conservazione in ambiente con forte umidità). Nel "Single
8" (v.) il supporto è costituito da poliestere,
più tenace e resistente del triacetato, che, però,
può essere giuntato solo con nastro adesivo. L'applicazione
della pista sonora magnetica (operazione detta "pistaggio")
può essere fatta in casa con un'apposita pistatrice
nel caso delle pellicole con base in triacetato, mentre per
quelle in poliestere occorre rivolgersi a pochissimi centri
specializzati, essendo operazione più complessa e delicata
(anche da un punto di vista chimico).
Telemetro:
sistema per la misurazione della distanza cinepresa-soggetto,
generalmente a spezzatura di immagine orizzontale od obliqua.
Ne esiste una variante proposta da Chinon e Sankyo in alcuni
modelli di penultima generazione, detta di tipo "dicroico",
in cui il soggetto viene circondato da aloni blu-arancio quando
non è a fuoco.
Time
lapse: ripresa a fotogramma singolo mediante temporizzatore,
generalmente incorporato. Permette la ripresa di eventi che
nella realtà si svolgono molto lentamente, facendo
sì che appaiano estremamente veloci durante la proiezione.
TTL:
acronimo dell'inglese Through-the-Lens (attraverso l'obiettivo).
Sta a indicare la caratteristica di leggere la quantità
di luce riflessa dal soggetto misurandola attraverso lo stesso
obiettivo che cattura l'immagine e non, come accadeva in precedenza,
mediante una cellula esterna, che, nonostante sia molto vicina
all'obiettivo, introduce sempre il rischio che il campo abbracciato
da essa, sia leggermente diverso da quello inquadrato (specie
in presenza di zoom con escursione focale superiore a 3x).
Nelle super 8 la lettura esposimetrica è quasi sempre
di questo tipo, con alcune eccezioni eccellenti, come la Canon
310 XL (nota: il sito "museale" della Canon sotto
questo aspetto si contraddice).
XL: sigla che sta per eXisting Light (luce ambiente). Designa
quelle cineprese che presentano un otturatore (generalmente
di ampiezza fissa), con settore aperto maggiorato. Con un'ampiezza
di almeno 200°, il tempo di otturazione pro-fotogramma
diventa leggermente più lungo, rispetto a una cinepresa
con otturatore dal settore aperto di soli 150-160°. Le
cineprese più spinte in tal senso arrivano a un settore
aperto di circa 220-225°; con l'aggiunta di un'ottica
con apertura 1.2 o maggiore e di una pellicola ad alta sensibilità
(come poteva essere la vecchia Ektachrome 160), si poteva
tentare di fare riprese in condizioni quasi proibitive, ma
tenendo presente che il tutto era poco più che un'abile
trovata commerciale.
Zoom: v. carrellata ottica e obiettivo.